martedì 2 settembre 2008

strange brew/2


Nel maggio del 1966 la California era la Terra Promessa. La patria del surf era, o almeno così sembrava, il luogo della perfetta coincidenza tra vita etica e vita estetica. Tutto quello che succedeva in California era bello, e chi vi partecipava era un beato. Di questa Terra, Brian Wilson era la colonna sonora vivente, l'architetto in grado di costruire una topografia sonora perfettamente sovrapponibile a quella reale. La California era quella dei Beach Boys, l'estate perenne, i fuck-me-smile, la grande abbuffata di lsd ed affini.
Pet Sounds è la rottura di questo equilibrio, l'impossibilità di questa sovrapposizione topografica. Le canzoni minime di PS sono parte di un tempo sospeso tra il festaiolo presente alla mano ed un lontanissimo ed oscuro altrove. Rarefatto ed oscuro, leggero e denso.
Non semplicemente un cambio di prospettiva - come se dal foro esteriore si fosse passati a quello interiore - non una maturazione - come se dall'estate si fosse passati all'autunno: pensare in questo modo a PS è affrontare con la botanica un problema di poetica.
In Pet Sounds, quella che era la musica dei Beach Boys viene completamente frantumata. Brian Wilson ricostruisce il proprio cantiere sonoro, mette in note spaesamento e disillusione, cancella la superfice dorata e si cala nel più profondo novecento. Il suo mondo è ancora lì: sono i significati che cambiano. Con un atto intimamente sovversivo - mi verrebbe da scrivere rock - questi significati evaporano e si sublimano in suoni immediatamente classici, metatemporali eppure alla portata di tutti. Un disco difficile ma immediatamente comprensibile. Paradigma del pop.

1 commento:

Zonekiller ha detto...

Grandi i Beach Boys...li ascolto tuttora con immenso piacere...
A presto (a proposito ti ho linkato)